Daverio (Erba 1917 – 1999), frequenta la Scuola di Arti Applicate di Cantù dove incontra Fausto Melotti, suo docente al corso di Arte Plastica. Un insegnante dotato di uno spirito moderno, il cui insegnamento era rivolto a valorizzare le intime e spontanee necessità espressive dei ragazzi.
Nel 1966, in occasione di un’esposizione dedicata a Daverio, Fausto Melotti così lo presentò “Fin da quando, ancora ragazzo era mio allievo, riusciva a incidere nei suoi disegni una tensione lirica che nessuno gli avrebbe potuto né dare né insegnare; Il temperamento di Daverio rispondeva con magnifiche impennate liriche e i suoi disegni, che la guerra ha purtroppo distrutti, darebbero testimonianza di quanto sia autentico, nelle opere che egli espone, questo suo modo di interpretazione della realtà che, pur partendo da quel suo mondo malinconicamente trasognato, trova le dure proiezioni della vera scultura”.
“una traccia di quel creativo insegnamento è rimasta, ben riconoscibile, nel modo di operare e di riportarsi ad un libero universo fantastico che caratterizza l’opera multiforme di Franco Daverio”
Al suo precoce esordio nel mondo dell’arte, illustra una delle prestigiose copertine della rivista della Galleria Il Milione, dove espone, in una collettiva della Scuola d’Arte di Cantù, alcuni disegni ammirati anche da Le Corbusier, in visita in quel periodo in Italia e che ebbe a dire “le cose più belle ed interessanti del mio viaggio, le ho riconosciute nei disegni di questo giovane”.
A queste prerogative innate, non fa seguito un altrettanto frequente impegno espositivo, come ben intuisce Bruno Talpo: “… al confronto predilesse l’opera alchemica, il gioiello introspettivo, quasi che esibire alla luce naturale i propri oggetti d’arte, rischiasse di distruggerli o disperderli, smarrendo con ciò la chiave del proprio labirinto interiore.”
Le sue opere raccontano dei primitivi, Egizi e Sumeri, i totem e le maschere dell’arte africana, i cicli medievali e, non ultimi, per Picasso e Modigliani. Nascono così dalle sue mani, “sculture come fantasmi che hanno memoria di una cultura antica, radicata nella materialità certa delle cose”.